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  • Angela Suprani – Le cose che finiscono

Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Terza edizione – 1999

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Angela Suprani

Le cose che finiscono

La vita non è tanto semplice per me che detesto la fine delle cose. A volte detesto le cose che incominciano, tanto puzzano di fine ancora prima che questa si avvicini. L’inizio delle cose è grandioso. Quando ero piccola smaniavo all’idea di lanciarmi in una nuova avventura, come per esempio costruire una capanna con i lenzuoli tesi tra la tavola e il letto; mi investiva una scarica di eccitazione tale da farmi drizzare la peluria trasparente sulle braccia. Mi scaraventavo nell’impresa proiettandomi verso una gioia che annusavo smisurata, se solo l’idea che ne avevo era così bella e luminosa. Navigavo tra le sensazioni future sospesa sui cavalloni dell’immaginazione. Quello che stavo facendo era prendere la rincorsa per lanciarmi nella felicità raggiungibile di un dopo che già sentivo sotto le dita. Stavo commettendo uno degli errori più idioti che in seguito mi avrebbero accomunata al mondo degli adulti, quello di credere che la felicità sia un salto ancora da compiere, qualcosa di scritto sempre nella pagina successiva. Poi, una volta finita la rincorsa, quando mi aspettavo di sentirmi crollare addosso le precipitose cascate della felicità fin lì inseguita, me ne restavo lì sotto il tetto di lenzuola del mio desiderio compiuto, e mi si sgonfiava l’anima dentro il petto mentre mi accorgevo, schiumando di rabbia, che ciò che provavo non era niente di simile a quanto mi aspettassi. Avevo inseguito l’ombra del gatto palpitando dall’eccitazione, poi mi ero tuffata per acciuffarlo e, ancora ansimante per la corsa, mi accorgevo che tra le mani non avevo proprio un bel niente. Pensavo a quanto era stato bello fino a pochi minuti prima, con il sogno ancora tutto intero e gonfio e a portata di mano, e poi, ecco, puff, tutto scomparso. Che me ne facevo di quella stupida capanna di lenzuoli? Il meglio era già passato. Tiravo giù tutto a strattoni e mi gettavo sul letto sfinita ed incredula. Poi mia madre sparì da casa. Sparita, letteralmente, svanita nel nulla. Era un giovedì pomeriggio e lei andava in ciabatte su e giù per le scale con la cesta del bucato da stendere; c’era il sole e tirava un gran vento, le porte sbattevano, però lei, che di solito non lo sopportava proprio, quel giorno sembrava non accorgersene nemmeno. Avrei dovuto capire che quello era il segnale di qualcosa di strano. Io stavo seduta davanti alla televisione, e quando lei si affacciò alla porta ci guardammo un momento negli occhi, lei chiese “Tutto bene?” e io dissi “Mmh mmh”, poi la sentii scendere le scale e aprire la porta del retro, poi più nulla. Non l’abbiamo rivista mai più. Papà rientrò all’ora di cena e solo allora ci accorgemmo che nell’aria non aleggiava nessun profumino invitante; guardai l’orologio e restai schiacciata dalla prima pesante consapevolezza, la prima che io ricordi, quella incancellabile. Anche se non avevo idea di che cosa esattamente fossi consapevole, sentivo comunque che era come un punto, un violento punto posto alla fine di qualcosa, e che non mi piaceva per niente. La mamma, pare, se ne andò via così com’era, con lo scamiciato e le ciabatte, senza prendere nemmeno diecimila lire dal borsellino della spesa, né un fazzoletto da naso; in casa non mancava proprio niente, nemmeno una nostra fotografia. Quella notte restammo tutti e tre ammutoliti, sbattendo sguardi impauriti tra le quattro mura della cucina, timorosi di guardarci l’un l’altro fin dove non avevamo mai osato prima, dentro agli occhi. Ad un certo punto papà aprì la finestra, e la tenda bianca si mosse con il vento, entrò quieta la luce della luna e la casa si svuotò definitivamente della presenza della mamma. Io non ero dispiaciuta per lei. Ero invidiosa. Per me lei stava ancora prendendo la rincorsa verso il suo raggiante futuro, senza mai raggiungerlo, fortunata lei, e io mi sentivo arrabbiata perché prima di compiere questo suo atto meraviglioso ed egoista avrebbe almeno potuto inculcare a me un po’ del suo coraggio. Dio, che coraggio! Aprire le braccia e volarsene via, brava, è così che si fa, o tutto o niente, non stucchevoli vie di mezzo, vorrei ma non riesco, vado ma non vorrei, mi piacerebbe ma non posso. No no, a lei è scesa la catena e ha abbandonato la bicicletta, ha continuato a piedi come se niente fosse. Sì, ma mamma, la tua è stata una lezione a metà, ho capito che le cose finiscono, ma tu mi dovevi spiegare come si fa a sganciarsi dai legami consumati, come si fa a scrollarsi di dosso la soma ammuffita dei rapporti esauriti, e soprattutto da quale parte devo guardare per riconoscere tra le erbacce l’inizio di un sentiero nuovo, invisibile ma tracciato; questo io volevo, e invece mi hai lasciata a mollo nell’irrisolta questione del perché le cose che si compiono lasciano sulle labbra l’amaro della delusione invece del sapore zuccherino che ti aspettavi mentre le rincorrevi con l’acquolina in bocca. Le cose che cambiano non ti lasciano il tempo per guidare piano godendoti il panorama di un’assolata serenità interiore; e il paesaggio che attraversi diventa reale soltanto dopo, quando resta svuotato, quando volti la testa e lo guardi attraverso il tempo che ci è scivolato sopra, e con quanta fatica. Beh, intanto vola, la mamma, almeno lei, ne sono certa; con i capelli svolazzanti nell’inebriante corsa verso aspettative non deluse. Ancora adesso, nelle giornate di vento forte, se chiudo gli occhi posso sentire sulle guance le frustate dolci come carezze dei suoi capelli biondi che si alzano e si abbassano al ritmo di tutti i desideri del mondo.


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